sabato 22 novembre 2008

INTERVISTA A GABRIEL N. HORTOBAGYI




Ho il privilegio e l’occasione di incontrare il professor Gabriel Hortobagyi durante un importante congresso, “Meet the professor-advanced course on breast cancer” organizzato dalla Struttura Complessa di Oncologia dell’Azienda Ospedaliero- Universitaria di Modena, diretta dal professor PierFranco Conte.
Il congresso ha visto la partecipazione di alcuni dei massimi esperti sul tema , tra cui il prof. Luca Gianni dell’Istituto Tumori di Milano, il professor Dennis Slamon dell’UCLA University di Los Angeles, il professesor Ian Smith della Royal Marsden di Londra, e, appunto. Gabriel Hortobagyi dell’ MD Anderson Cancer Center di Houston.
Scopo del convegno è stato fare il punto sui risultati della prevenzione, diagnosi e trattamento del tumore al seno tramite la discussione di casi clinici rilevanti e il commento in tempo reale degli esperti. I clinici dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia sono in prima linea per quello che riguarda il tumore alla mammella e la loro attività si svolge a tutto campo, coinvolgendo eminenti studiosi e utilizzando i new media per consentire un’ informazione più allargata e capillare. Tutto il convegno è avvenuto in tempo reale su Second Life con la possibilità estesa a tutto gli studiosi del mondo di porre domande al professor Hortobayi e al professor Conte, che da tempo ha portato Modena al centro dell’eccellenza internazionale in questo settore.Ma veniamo al professor Hortobagyi.

Questo nome non dice molto al di fuori del mondo scientifico.Invece si tratta ( a lui non piacerebbe la definizione) di uno degli oncologi medici più importanti del mondo, esempio di autorevolezza scientifica, umanità e disponibilità
Il professor Hortobagyi viene spesso in Italia: è universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti nell’ uso della terapia sistemica per il trattamento della neoplasia mammaria. E’ stato un pioniere nel dimostrare l’efficacia della chemioterapia preoperatoria nel carcinoma localmente avanzato e questo ha portato a riduzione delle mastectomie e ad un rilevante aumento della sopravvivenza. Al momento i suoi studi vertono sulla terapia genica, sulla caratterizzazione molecolare del cancro della mammella, e sui meccanismi di farmacoresistenza. E’ autore o coautore di oltre 750 pubblicazioni sul tema e di 11 libri e innumerevoli capitoli sullo stesso argomento. E’ stato presidente dell’ ASCO, American Society of Clinical Oncology e collabora da tempo col professor PierFranco Conte. ( Da me intervistato qualche tempo qualche tempo fa, in esclusiva, qui http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2008/04/24/intervista-al-professor-pier-franco-conte/ )

Ritengo eccezionalmente importante questa occasione per intervistarlo, perché conoscere il lavoro dei più importanti ricercatori di oncologia medica, capire i debiti verso i maestri, conoscere lo stato dell’arte, confrontarsi sulla divulgazione può servire a limare i foschi pregiudizi che ancora, in Italia, circondano il tema cancro. Il male incurabile e innominabile, che provoca vergogna, che si nasconde, che si fatica a nominare e fa sentire in colpa. Il male che non esiste, il “brutto male”. L’unica malattia che provoca reazioni schizofreniche da parte di tutti, persone, opinione pubblica, giornali. Si evita, o si applaude a qualche nuova scoperta senza curarsi dei tempi, delle applicazioni reali, di come inciderà ( e quando) sulla vita dei pazienti. Il risultato è spesso una non- conoscenza , una mancanza di attenzione ai segnali del corpo che può risultare profondamente nociva e fuorviante.
In questo tempo in cui le informazioni sono tante, debordanti, quasi troppe, sul cancro ci sono soprattutto silenzi.
E” da questo che comincio con il professor Hortobagyi.
Sul tema cruciale della divulgazione. Visto l’aumento dell’incidenza delle malattie neoplastiche, rendere meno silenziosa e sola la vita degli ammalati, far conoscere i grandi progressi dell’oncologia medica ( stando attenti ai facili sensazionalismi spesso sbandierati dai giornali, come dicevo) mi pare una cruciale questione non solo medica, ma sociale e culturale. Che ci riguarda tutti. Ed è quello che mi spinge a lavorare a queste interviste mantenendomi costantemente aggiornata. Penso si debba far sapere cosa vuol dire essere oncologi medici, oggi, e come esserlo, nel contemporaneo.Gli chiedo cosa ne pensa.

Sono d’accordo con lei. Vede, la situazione negli Stati Uniti è molto diversa ma conosco quella italiana. Da noi c”è stato un preciso lavoro “educazionale” portato avanti dai media negli ultimi 30 anni che ha davvero inciso nella percezione della malattia e di quello che alla malattia è correlato. E’ più difficile provare vergogna, ci si sente capiti. Si sa di condividere una situazione molto diffusa. Non è facile arrivarci. Occorre un lavoro paziente, ripetuto, incisivo fatto dai mezzi di informazione, si tratta di superare le resistenze e, all’inizio, le resistenze sono molte. Ad esempio, sarebbe di grande aiuto che qualche persona nota, uno sportivo, un attore ( in America l’hanno fatto anche le mogli di due Presidenti, quella di Ford e di Reagan,) rivelasse di avere il cancro e si lasciasse intervistare. Questo avvicina, rende più “normale” il fatto che accada, rassicura e rinforza. Altro elemento rilevantissimo, è che gli ammalati si organizzino in associazioni.

Com’è successo nel caso dell’AIDS.

Esattamente. Esempio importante, in America, è quello dell’Associazione Susan Komen
( http://ww5.komen.org/ ).
Susan era una mia paziente, si ammalò di cancro nel 1982 e poi purtroppo morì. Anni dopo anche a sua sorella capitò la stessa cosa, guarì e decise di organizzare questa associazione intitolata a Susan che ha avuto una grandissima diffusione, i membri sono diventati 15.000, raccolgono fondi, forniscono consigli, indirizzano, si fanno sentire coi candidati alle elezioni, esercitano grande influenza senza vergogna, senza omissioni di alcun tipo. C’è, in questo modo, nello stesso tempo uno stimolo alla ricerca e un impatto forte su televisioni, giornali, internet, e sulle persone, perché fra le varie attività di cui si occupano ce n’e una dedicata all’informazione che è diffusa e capillare.
Quello che i giornalisti, i divulgatori e gli analisti debbono tener sempre presente è che occorre una conoscenza precisa. Una conoscenza seria che parta da fonti validate. Restando sul tema del cancro della mammella, che è quello di cui mi occupo, si deve chiudere la porta ad una informazione fuorviante, che può seriamente danneggiare le persone e soprattutto le donne quando si trovano di fronte alle prime avvisaglie di qualcosa che potrebbe essere preso in tempo.
Si devono segnalare i centri migliori, fornire link a siti internet numeri di telefono, indirizzi e-mail. Una donna che pensa di avere un problema non deve mai sentirsi perduta, sola, ma avere i mezzi e agire presto, sapendo di farlo nel modo migliore. Io credo che fra cinque, dieci anni al massimo, queste paure che diventano silenzi attorno al tema cancro diminuiranno e la cosa inciderà molto sul tessuto culturale.

Per aiutare chi legge a capire meglio, come si può definire il ruolo di un oncologo medico?

L’oncologo medico lavora in team, in un team dove tutti hanno un ruolo importante. La parola chiave per definire il lavoro che facciamo è “multidisciplinarietà”. Non c’è spazio per gelosie, o lavori che prescindono dal confronto, anche dialettico. Di solito, l’oncologo medico è il coordinatore dell’equipe medica che si occupa del paziente ma non è sempre detto, dipende dalle strutture e dall’organizzazione interna. Il coordinatore può essere anche qualcun’altro. L’importante è che l’organizzazione del lavoro sia efficace e funzionale. Questo per quello che riguarda i medici. Naturalmente ogni equipe deve avere sempre presente la cosa fondamentale in assoluto, LA CENTRALITA’ DEL PAZIENTE. Attorno al paziente tutti i membri del team specialistico e multidisciplinare devono collaborare ed essere coinvolti in egual maniera.

Che cosa l’ha portata a scegliere l’oncologia quando ha cominciato, e quando l’oncologia..

Non esisteva, certo. Beh, una motivazione strettamente scientifica, comprendevo le possibilità di sviluppo che avrebbero coinvolto diverse branche mediche. Quando ho cominciato non esisteva nulla di tutto questo, c’erano ematologi, endocrinologi, internisti che avevano una passione unificante, studiare, analizzare e procedere con la ricerca attorno al “tema cancro” per incidere sulla vita delle persone. Agli albori era una questione solo chirurgica. Piano piano le cose sono cambiate. Nei casi più guaribili la chirurgia ha cominciato ad essere meno invasiva e sempre più focalizzata, diretta ( penso al sarcoma, al cancro della mammella) Certo, la terapia medica ha acquisito maggior rilievo, ci sono già tumori come il linfoma dove non è più necessario intervenire chirurgicamente, ma nulla può essere escluso, come le dicevo si tratta, e lo ribadisco, di un lavoro di equipe. Unica vera garanzia per il paziente. Tutti i saperi sono in gioco.

Lei è il massimo esperto di cancro della mammella. Durante il congresso si è enfatizzata l’importanza dello screening. Ho letto, tempo fa, uno studio trovato in internet, che in alcuni casi si è proposto l’utilizzo della Risonanza Magnetica al posto della Mammografia per arrivare a una diagnosi precoce. E’ ipotizzabile, secondo lei, dal punto di vista dei costi-benefici una diffusione su vasta scala di questo tipo di screening?

Direi di no. Lo screening per il cancro della mammella si fa con la Mammografia dagli anni sessanta ed esistono le dimostrazioni scientifiche validate dell’efficacia e dei risultati che si ottengono procedendo così. La Risonanza Magnetica certo può identificare più cancri della mammella che la Mammografia, ma attraverso una Risonanza si trovano anche tante altre cose, masse o formazioni che possono spaventare inutilmente la paziente o spingere a fare biopsie, magari inutili. E’ alto anche il numero di falsi positivi. A causa di questo la Risonanza può essere un utile strumento per affiancare, in alcuni casi, ma non lo strumento base per lo screening, assolutamente no.
Il discorso si modifica leggermente in caso di pazienti con una grande storia di famigliarità ma anche in quei casi l’indicazione è quella di procedere SIA con la Mammografia CHE con la Risonanza.

Riesce ancora a fare della clinica?

Certo, è fondamentale. Mantiene radicati nella realtà, si fa questo lavoro per stare a contatto con il paziente. Purtroppo, riesco a farne meno di quella che vorrei ma la faccio.

Chi sono stati i suoi maestri?
Sicuramente Freireich, un ematologo americano, uomo di grande intelletto e di incredibile ottimismo.
E ancora Fletcher, un radioterapista, con solidissima formazione scientifica, mi ha insegnato tanto. Sopratutto perché era critico nei confronti del ruolo dell’oncologo medico, quindi il nostro rapporto è stato vivace, dialettico. Fonte di grande stimolo.
Altra persona che mi sento di citare è senza dubbio Gianni Bonadonna, un vero pioniere, grande amico ed esempio.( http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/06/23/il-%E2%80%9Cpadre-%E2%80%9C-dell%E2%80%99oncologia-medica-italiana-in-esclusiva/ )
E poi Fischer, Umberto Veronesi e altri.

Cosa serve per essere un buon oncologo medico?

Ci vuole empatia: occorre avere la capacità di identificarsi con la persona che abbiamo davanti. Sintonizzarsi, avvicinarsi. Si deve dare grande spazio a tutte le qualità umane, la comprensione VERA, la capacità di ascolto. Si ha davanti una persona, non la malattia. Non subito. Sa? E’ difficile trovare qualcuno che sia un buon oncologo e anche un buono scienziato. Ci sono ottimi scienziati che sono cattivi oncologi.
Non puoi essere un buon oncologo se non sei un inguaribile ottimista. Ci vuole fiducia nella scienza, nelle capacità della medicina di evolversi e avanzare, nei colleghi, nella ricettività e cooperazione dei pazienti. A tratti, occorre sapersi frenare, accontentare. Non possiamo curare tutti e subito. Non siamo onnipotenti. E’ un rischio, quello dell’onnipotenza. Vorremmo risolvere ogni cosa, e spesso le cose vanno diversamente. Questo non si accetta con facilità ma è necessario. Se solo penso ai progressi che sono stati fatti negli ultimi 15 anni… Nei prossimi 25 chissà. Io ho questo stimolo, aspetto di vedere quello che potrò vedere e questo mi fa andare avanti sereno. Ogni giorno, come medico e come oncologo per tutti i miei pazienti do il massimo. Faccio tutto quello che è nelle mie possibilità mantenendo un forte contatto empatico ed emotivo con le persone che non sono numeri, che non sono “malattie”, ma che hanno ansie, paure, bisogni. Quando ho fatto quello che devo va bene. Anche se, lo status quo non può appagare alla lunga. Deve scattare quel meccanismo. Quella adrenalina che porta a procedere oltre. Non credo di soffrire di un vero burn-out ma vivo uno stress che diventa il motore per la ricerca, per andare avanti.
Che cosa si aspetta per il futuro, cosa pensa che accadrà?

Per il futuro vedo la comprensione della biologia del cancro. Diverse centinaia di tipi di cancro da comprendere, ognuno va analizzato e studiato nella sua specificità. Non ci si deve stancare di ripetere che i cancri sono TUTTI diversi, non si tratta di una sola malattia( questo è un pregiudizio molto diffuso) E si tratta di trovare tutte queste cure, cure per moltissime malattie, non per una sola anche se hanno lo stesso nome. Malattie che in alcuni casi stanno già, e sempre più diventeranno croniche, quando non subito guaribili.
APPROFONDIMENTI
http://typo.esmo.org/?id=738 ( la biografia completa del professore)

http://www.aiom.it/ ( il sito dell’Associazione Italiana di Oncologia medica)Tags: ,

lunedì 3 novembre 2008

Intervista al professor Pier Franco Conte



Di Francesca Mazzucato


Vado a Modena per intervistare Pier Franco Conte, direttore del dipartimento di Oncologia ed Ematologia del Policlinico della città. Non ci sono mai stata al policlinico, temo sempre di essere in ritardo, così prendo un taxi e come sempre ne approfitto per fare un po’ di domande al tassista. Non ho la patente, ma nemmeno la vorrei, i tassisti sono le mie bussole per conoscere gli umori, le realtà territoriali, le questioni dal punto di vista della gente, di chi ci sta in mezzo, di chi vede correre, affrettarsi, soffrire, attendere.


- Un tempo mica ci andavano in tanti all’ Oncologia di Modena


- Ah no?


- No, dicevano che era meglio a Reggio. Ma saranno otto o nove anni che ne parlano benissimo. Quelli che ne parlano, perché sa, andiamo a prenderne molti dopo le cure e non hanno voglia di dire niente.


Il professor Conte è qui dal 2002. Entrando nell’ospedale , il Padiglione Pier Camillo Beccarla, dedicato a un sindaco della città morto di cancro( informazione del tassista), si rimane francamente stupiti. E non è che a Bologna gli ospedali siano brutti, tutt’altro. Qui però ci sono le indicazioni in arabo e in inglese e l’effetto è notevole: un ospedale ben organizzato, arioso, è tutto come dovrebbe essere per far sentire agio in chiunque possa capitare qui, e in una società multietnica e stratificata, possono capitare persone che necessitano di indicazioni non solo in italiano, o di mediatori culturali che, difatti, sono a disposizione. Il professor Conte è il vincitore dell’edizione 2007 del Premio internazionale Claude Jacquillat sul carcinoma mammario, uno dei riconoscimenti di maggior rilievo per chi si occupa di tumori e premiando il professore è stata la prima volta che il premio è stato dato a uno studioso italiano.
Pier Franco Conte è nato 55 anni fa a Fossano, Cuneo. Ha pubblicato oltre 250 articoli sulle riviste scientifiche più importanti, la maggioranza delle quali sulla caratterizzazione biologica e sui trias clinici nel carcinoma mammario e ovario. E’ stato inoltre ricercatore responsabile di vari progetti di ricerca sostenuti dal CNR e dall’ Associazione Italiana per la ricerca sul cancro, e investigatore principale di numerosi studi di fase II e III che hanno contribuito a definire il trattamento chemioterapico del carcinoma mammario avanzato. Inoltre il professor Conte è stato inserito nell ‘ Editorial Board del Journal of Clinical Oncology per il carcinoma mammario, e continua il suo rapporto costante di collaborazione e scambio con Gabriel Hortobagyi, dell’Anderson Cancer Center , Università del Texas e presidente dell’ASCO, l’associazione scientifica degli oncologi americani. Tutti segni dell’eccellenza degli studi condotti da Conte che sottolineano il suo ruolo sempre più crescente nella comunità scientifica internazionale.Inoltre il professore ha da poco studiato e messo a punto metodi di divulgazione e di “apertura “ al pubblico attraverso l’utilizzo di Second Life, assolutamente innovativi e mai sperimentati in Italia ed è un’altra delle cose di cui desidero parlare con lui.


Mi fanno attendere un po’, ma non molto e ne approfitto per dare un’occhiata in giro. Mi capita sottomano una copia di COM, il giornale del Centro Oncologico Modenese, sparso in ogni angolo del dipartimento. E’ molto interessante e ben fatto, noto con piacere l’utilizzo di tutto quello che può contribuire a costruire percorsi condivisi di comunicazione. All’interno leggo di un progetto specifico indirizzato ai medici di famiglia, per ridurre la distanza con gli specialisti e per affiancare i mutualisti quando si trovano a dover trattare una possibile patologia neoplastica. Il progetto ha avuto una genesi lunga e attenta: dopo una fase iniziale di rilevazione dei bisogni con questionari somministrati sia ai medici di famiglia che agli oncologi, è passato alla fase operativa. Attraverso alcuni incontri si sono messe a fuoco le necessità di entrambe le componenti professionali e definiti, con gruppi di lavoro dedicati e l’analisi di casi clinici, possibili strumenti risolutivi. Si sono approfondite le nuove terapie, con particolare riguardo alle indicazioni e soprattutto alle interazioni ed effetti collaterali e alla gestione delle urgenze( all’esordio della malattia, in corso di terapia antineoplastica, in follo up e nella fase terminale) Questi sono in fatti i temi critici emersi dai questionari, quelli su cui concentrare gli sforzi per garantire la migliore continuità assistenziale e la cura ottimale del paziente oncologico. Negli incontri è emersa la necessità di dotarsi di un “vocabolario” condiviso per parlare di cancro, un’ opera in divenire a cui ciascuno può portare il suo contributo originale in considerazione della propria esperienza.Leggere questo mi fa molto piacere. Da tempo penso che il linguaggio che ruota attorno all’oncologia e al cancro sia un linguaggio che debba essere ripensato e modificato, che questo sia un dovere dei medici, ma anche di chi lavora nell’informazione. I media hanno paura persino a nominare il male che sfuggono, che evitano, che chiamano “brutto male”( come se esista un “bel male”) o “male incurabile”( quando è spesso guaribile e sempre curabile, anche se si tratta di cronicizzare e rendere vivibili e migliori i mesi o gli anni che ci sono da vivere). Inevitabilmente penso a Tiziano Terzani, al suo bellissimo libro “Un altro giro di giostra”, ci penso sempre quando ragiono sulla terminologia “bellica, guerresca e dura” che ruota intorno alla malattia neoplastica. Lui, col suo libro, da malato ci ragionò e chiamò i medici “aggiustatori”, l’acceleratore lineare per la radioterapia “ la ragna” e uno dei chemioterapici “la rossa”.
Continuo a sfogliare il COM e mi soffermo sul Progetto Amazzone.Il progetto Amazzone(http://www.progettoamazzone.it/ ) nasce nel 1996 a Palermo su iniziativa dell’associazione Arlenka onlus. E’ dedicato all’esperienza femminile del cancro al seno vista attraverso il Mito, la Scienza, il Teatro. Il Mito per riprendere contatto con l’Origine, la Scienza per fare interagire ricerca, cure, partecipazione, il Teatro per ridare al corpo valore di comunicazione. Il Progetto si rivolge a tutti, sani e ammalati senza limite di età; valorizza le risorse umane nel percorso di cura della malattia, mettendo nello stesso campo d’azione psicologia, medicina, antropologia, arte del corpo, teatro, comunicazione. L’obiettivo primario è la rimozione dei condizionamenti che stanno intorno al cancro, specialmente al cancro al seno, simbolo della maternità e della femminilità: paura, pregiudizio, isolamento, disinformazione a volte possono pesare più della patologia stessa. Progetto Amazzone patrocina Giornate Biennali Internazionali, importante appuntamento scientifico e culturale in campo internazionale con convegno di oncologia, spettacoli, seminari di cultura umanistica. Sono stati coinvolti alcuni fra i maggiori scienziati internazionali fra cui il professor Conte e il prof . Gabriel. N. Hortobagyi. La prossima edizione, leggo, è prevista dal 18 al 22 novembre 2008 e ha per titolo:” Le Dimore di Kronos nel Mito e nella Cellula”. Filo conduttore sarà il tempo.


E’ proprio a questo punto che una gentile segretaria mi invita a raggiungere il professore nel suo studio. Sono estremamente affascinata e colpita dal “posizionamento” di questo dipartimento e del lavoro intorno e accanto al cancro. Il professore è molto cordiale, ottimo conversatore, serio e sobrio, efficace.


Cominciamo la nostra chiacchierata


Mi racconta dei suoi inizi? Qual è stata la molla che l’ha portata alll’oncologia medica?


-La molla è stata umanitaria. Qualcosa di profondo, imprescindibile e sentito. Studiavo ematologia presso la Clinica Medica dell’Università di Torino con Felice Gavosto, ematologo di fama. C’erano i malati oncologici, ma erano come segregati, come nascosti all’impotenza della medicina, anche se in quegli anni cominciavano ad apparire i primi successi. De Vita, Bonadonna, si cominciava a intravedere una possibile via medica al trattamento di alcuni tumori. Ma questi malati mi colpivano e nacque il desiderio di occuparmene. Erano talmente giovani, alcuni, non me li sono mai dimenticati: ricordo un ragazzo con un osteosarcoma, aveva metastasi polmonari multiple, gli mancava il respiro, faceva fatica: gli stavo vicino, colloquiavo con lui, ne conservo un ricordo vivissimo.Poi ricordo una ragazza.


In che anni siamo?


- Nel 1974, all’incirca. La ragazza aveva un linfoma di Hodgkin che già allora aveva possibilità di guarigione, ma quello che ricordo è che si trattava di una ragazza molto bella, che lavorava nella moda, ho fisse in mente le sue parole, l’evidenza di una ghiandola ingrossata, la percezione di qualcosa che non andava, e il momento in cui tutto, attorno a lei e dentro di lei cambiò all’improvviso. Cambiò il corpo, cambiò il suo rapporto con gli altri, molte persone la lasciarono sola.


Dopo, cosa ha fatto?


- Dall’ematologia, passare all’oncologia fu consequenziale, poi mi trasferii a Bruxelles per due anni a lavorare a un progetto sugli anticorpi monocolonali, e siamo, circa, nel 1975/76. Nel ‘77 torno a Torino e vengo contattato da Leonardo Santi.


Il fondatore dell’IST ( Istituto Scientifico Tumori) di Genova diventato poi Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro.


- Infatti. Avevo mandato il mio curriculum in giro per il modo e avevo ricevuto due proposte dagli Stati Uniti e una da Santi che stava creando dal nulla un Istituto destinato a diventare un faro internazionale per quello che riguarda lo studio e la cura dei tumori. Infatti, gran parte dei migliori primari e dei migliori oncologi non solo liguri vengono dall’IST. Inoltre era vicino e la sfida mi piaceva, accettai.


Non era tentato dagli Stati Uniti? Non lo è ancora, essendo il livello del suo lavoro di rilevanza internazionale?


Sorride.


- Tutti i giorni. No scherzo. Comunque, nel 1982 andai a Houston e iniziai un progetto di ricerca sulla mammella. Fu allora che conobbi Hortobaghyi. Siamo amici e collaboriamo insieme da tanto tempo. Ritornai poi a Genova e nel 1990 Leonardo Santi mi mandò a Pisa dove non esisteva l’oncologia medica.


Non esisteva?


- No. Ho creato la prima oncologia medica toscana, e da Pisa, via via, riuscii a convincere il governo regionale a creare dei dipartimenti di oncologia in tutti gli ospedali delle varie province. Da lì, nel 2002, sono stato chiamato dall’Università di Modena e Reggio Emilia a dirigere il nuovo istituto.
Quindi lei vive e lavora a Modena. Nel nostro paese si può affermare che esistano due modelli di sanità “trainante”, quello lombardo e quello emiliano,. Cosa ne pensa e quale, ritiene, alla fine destinato a predominare.


- In Italia non esiste una sanità statale ma una sanità regionale che offre realtà molto diverse . E’ un dato di fatto. Si possono osservare risultati differenti da regione a regione e dove i risultati sono mediocri o scarsi non è che dipenda dal mancato investimento di risorse. Il problema è nel come vengono investite. Cinque regioni sono responsabili della quasi totalità del deficit sanitario: Lazio, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria. Fra le regioni virtuose, in un’ottica di qualità dell’assistenza, i risultati sono rilevanti sia in Lombardia che in Emilia. I due modelli sono certamente diversi nell’impostazione. Quello lombardo delega molto al privato. Delega ma tenga presente che anche nel delegare al privato sono presenti forme di ingerenza della politica, anche se si preferisce non sottolinearlo. Questa delega al privato produce senza dubbio una maggiore agilità gestionale e anche più libertà di attrarre risorse. L’elemento preoccupante è l’inevitabile “selezione dei pazienti remunerativi”. C’è la tendenza a focalizzare l’interesse su certe patologie di maggior richiamo di maggior rilievo sociale. E’ un modello di sistema sanitario dove si mira all’utile e il privato si concentra su quello che produce risorse. Il resto continua a essere delegato al pubblico. Il “modello emiliano” ha una qualità più disseminata ed è un modello all’interno del quale non avvengono discriminazioni. Non c’è la ricerca ad accaparrarsi pazienti con patologie più “remunerative”. L’unico neo è che, dialogando con chi gestisce le risorse, occorre cercare di far capire come sia necessario far coesistere una visione egualitaria insieme all’innovazione. Procedere con la ricerca e l’innovazione è necessario e farlo implica per forza delle scelte, perché si tratta di decidere stanziamenti, e in quel caso escludere qualcosa. Quando si tratta di questo occorre superare delle resistenze, ma la mia opinione è che, per la realtà italiana, il modello da privilegiare è senz’altro quello emiliano.


Il suo dipartimento ha deciso di adeguarsi ai nuovi linguaggi della comunicazione aprendo un “distaccamento virtuale” su Second Life. E’ il primo ospedale italiano a fare una cosa del genere, all’interno di Prometeo, l’isola tutta “made in Italy” dove da poco è presente una copia esatta del Dipartimento. Il navigatore trova l’esatta ricostruzione del palazzo reale, per accedere è sufficiente registrarsi gratuitamente su http://www.secondlife.com/ . A partire dallo scorso aprile sono attive consulenze consulenze settimanali per i pazienti animate dagli stessi esperti del dipartimento. Ogni cittadino, da qualsiasi parte d’Italia potrà accedere direttamente agli ambulatori ed avere un colloquio privato con il medico, disponibile a risolvere dubbi e a fornire assistenza e supporto. Inoltre il dipartimento sta per approntare la prima Fiction in 3D sul tumore al seno , ambientata interamente nella struttura da lei diretta che permetterà di ricostruire l’intero percorso ideale della paziente, dagli esami di screening al post intervento. La fiction sarà ultimata a fine maggio e verrà trasmessa su http://www.intermedianews.tv/ ( la prima web tv italiana dedicata completamente alla medicina) e nel sito del dipartimento, www.com.unimo.it. Il Palazzo virtuale ospiterà anche un appuntamento scientifico di assoluto livello, il primoconvegno virtuale sul tumore del seno, che vedrà la partecipazione di alcuni fra i massimi espertiinternazionali, fra cui, oltre al professor Conte, il prof. L. Gianni dell’istituto Tumori di Milano, il prof. Hortobagyi del MD Anderson Cancer Center di Houston, il prof Slamon dell’UCLA Universitydi Los Angeles, il prof Smith del Royal Marsden di Londra. Questa iniziativa permetterà di far conoscere l’ospedale oncologico virtuale anche al di fuori del contesto italiano, dando il giusto risalto e respiro internazionale alla struttura (come già è avvenuto nella realtà). Lei quindi, professore considera importante l’uso della tecnologia nella diffusione di informazioni corrette su come comportarsi in caso di sospetta neoplasia e nella divulgazione dell’oncologia medica?


- Sì, le tecnologie servono. Bisogna prendere atto delle esigenze del contemporaneo. Vede, io vengo da una famiglia di Cuneo, mio nonno era tipografo e conservo dei bellissimi ricordi. Ad esempio stampò l’ultima edizione del dizionario “Piemontese- Italiano”. Mi diceva sempre:” Un galantuomo sui giornali ci finisce solo il giorno che nasce e il giorno che muore”. A questo background e a questa formazione solida e importante sono molto legato, ma qui arriva una sorta di paradosso. Nel contemporaneo la gente è sottoposta a un continuo martellamento di dati e informazioni, spesso di provenienza incerta quando non inesatta. Occuparsi di una corretta divulgazione assumendosene la responsabilità in prima persona è fondamentale. Si devono trasmettere notizie e indicazioni corrette e siglare col proprio nome e cognome. Per questo la nostra scelta, che affianca il giornale COM news e tante altre attività che ci tengono in costante rapporto coi medici di famiglia, ad esempio, che possono sempre riferirsi a noi, scriverci una mail o telefonarci. E coi pazienti. Per questa operazione di “consulto virtuale” abbiamo scelto Second Life perché è uno degli strumenti tecnologici preferito dai giovani, ed è ai giovani e alle giovani che vogliamo arrivare e fra cui vogliamo intervenire per portare avanti quel lavoro di prevenzione fondamentale nella nostra attività. Inoltre, su Second Life vengono costantemente aperti “luoghi “ufficiali, ministeri, consolati e lo si percepisce e considera come un veicolo tecnologico in grado di fornire informazioni e contenuti maggiormente valicati e affidabili rispetto ad altri.


Veniamo ad altro, pensando al futuro. Lei pensa che un giorno, nella cura del cancro, si potrà arrivare a rendere la chirurgia utile solo per la diagnosi e a basarsi esclusivamente sull’oncologia medica per la cura?


- Questa è la via che si sta percorrendo. Nel tumore della mammella, ad esempio, si è passati ad interventi altamente demolitivi a piccoli interventi microinvasivi. Nei tumori ossei l’amputazione dell’arto è ormai una rarità, il trattamento del tumore del retto permette quasi sempre di salvare la funzione, e potrei fare altri esempi. Per la maggior parte dei tumori, grazie anche alla diagnosi sempre più precoce, la chirurgia aggressiva sta progressivamente riducendo il suo campo di azione, D’altro canto si espande il ruolo della chirurgia nella malattia avanzata: in alcune situazioni oggi è possibile eliminare con successo alcune sedi metastatiche( sarcomi, colon retto ecc), mentre un tempo non si sarebbe ritenuto opportuno intervenire.


E’ cambiato il ruolo dell’oncologo medico?


-L’oncologo medico è un coordinatore. E’ necessario lavorare in gruppo, ci basiamo necessariamente sul sostegno di una equipe interdisciplinare. Ritiene che tra qualche tempo la chemioterapia diventerà preistoria?


- Nei prossimi dieci anni, almeno, la chemioterapia classica ci sarà ancora. E’ una chemioterapia diversa, meno tossica, con terapie di supporto molto più efficaci e usata con giudizio. E’ una chemioterapia che trae grandi vantaggi combinata con farmaci su bersaglio molecolare. Col tempo, ma di certo non è un fatto imminente, si potrà diminuire il ruolo degli antiblastici tradizionali. Il suo è un lavoro ad alto rischio di born out, come si difende?


- Il born out è un rischio. Può spingere il medico a mettere una barriera tra sé e ik paziente. Io non vorrei mai che mi accadesse. Certo, un pochino di distacco in certi casi può essere necessario( anche se difficile) per sopravvivere, ma distacco e barriere sono cose diverse. Intanto è importante poter contare su collaboratori capaci e su una organizzazione efficace. Inoltre, secondo me, è fondamentale sentirsi parte di un gioco più grande. Di qualcosa d’importante che incide e inciderà sulla qualità della vita delle persone. La ricerca ogni giorno conquista un pezzettino di speranza in più per il malato. Questa percezione conforta e sostiene anche se si deve evitare di considerare la malattia in modo rigido come una sfida e trasformare il malato come il campo da gioco, il ring dove combatterla. Nella vita privata per combattere lo stress e il born out pratico sport( sci e tennis) e leggo molto. Sono un appassionato lettore di romanzi.


A questo punto, anche se resterei a conversare per ore con il professor Conte , la nostra chiacchierata è conclusa. La sensazione che porto con me è piacevole e singolare. Si tratta di un eccelso scienziato conosciuto in tutto il mondo, autore di studi contenuti nei manuali di oncologia che si studiano all’università, ma è anche un uomo che vive calato nel suo tempo, attento alle mutazioni e alla tecnologia, ed è soprattutto un medico serio che non ha perso, con gli anni e i numerosissimi riconoscimenti, umanità, empatia e passione per la clinica. Ricordando i primi malati oncologici che incontrò quando era studente a Torino si è quasi commosso, ho percepito una motivazione feconda e nutrita ogni giorno. Lasciando il dipartimento porto con me questa sensazione insieme all’importante idea innovativa di un uso “virtuoso” del web e di Second Life per un attento e meditato lavoro di divulgazione. Per mettere a disposizione sempre più strumenti e aperture.



Il "padre" dell'oncologia medica italiana in esclusiva.Ritratto-intervista di Gianni Bonadonna


Di Francesca Mazzucato

“….But in it shall be remembered; We few, we happy happy few,

we band of brothers..” Shakespeare, Henry V

Ho incontrato Gianni Bonadonna una mattina di maggio presso la Fondazione Michelangelo da lui presieduta, una onlus a carattere scientifico finalizzata all’avanzamento della ricerca applicata alla cura dei tumori. Non ero mai stata all’Istituto dei Tumori di Milano e, sul taxi dalla stazione, non ho potuto evitare di pensare a tutte le persone che, negli anni, hanno fatto il mio stesso percorso, con la fatica e la ribellione dipinta in viso, le angosce e le speranze logorate e trascinate in giro alla ricerca di un appiglio, di una soluzione, anche parziale.  Ho immaginato visi stanchi e affaticati, occhi velati da ferite e crepe, da speranze trafitte e poi flebilmente ritornate,  borse  e valige trascinate controvoglia, la fatica dell’arrivare, del domandare l’indirizzo, via Venezian, dell’ipotizzare mani che toccano, che palpano, che prescrivono esami. Ho immaginato l’illusione della speranza, l’incertezza, la decadenza inevitabile, la vita che compie il giro di boa. Ho domandato al taxista, i taxisti conoscono le storie, conoscono tanta vita privata, a volte la serbano e a volte la dilapidano. Era un taxista che sapeva raccontare con rispetto e precisione. Ne aveva caricate tante di persone. L’ho ascoltato concentrata, e così sono riuscita a rilassarmi. Ero molto emozionata. Incontrare Gianni Bonadonna ha significato l’incontro con un uomo che ha reso ( e rende) onore al nostro paese. Ha significato qualcosa di profondo, un momento che sapevo, sentivo, sarebbe stato difficilmente dimenticabile. Avevo letto alcuni dei suoi libri divulgativi. Avevo studiato e approfondito. Forse questo nome non dice a tutti quello che dovrebbe. Gianni Bonadonna è il “padre” dell’Oncologia Medica italiana. Intanto il suo curriculum in breve, poi spiegherò meglio che cosa vuol dire esattamente questa cosa. Cosa ha rappresentato il suo lavoro, cosa sta facendo adesso.

Gianni Bonadonna è nato a Milano nel 1934 e si è laureato in medicina all’ Università di Milano nel 1959. Dopo un tirocinio al Memorian Sloan Kettering Cancer Center di New York, presso la divisione di  chemioterapia diretta da David A. Karnofsky, (da tutti considerato il fondatore della moderna Medicina Oncologica a livello mondiale), iniziò a lavorare all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.(Lo chiamò Pietro Bucalossi. Durante l’intervista mi ha detto :” Sono tornato perché volevo che il mio lavoro fosse legato al mio paese”. All’inizio non è stato facileCito da un suo libro:” ..La terapia medica non doveva rimanere la cenerentola del trattamento oncologico. Accantonai momentaneamente i ricordi di New York, dove l’assistenza ai malati non conosceva né pause né ferie e tenni duro proseguendo nel mio lavoro. I colleghi presenti mi osservavano in silenzio., chiedendosi probabilmente che tipo di alieno fossi, ed etichettandomi già come l’americano, quello che pensava di guarire i tumori con i farmaci..”) Nel 1976 venne nominato Direttore della Divisione di Oncologia Medica e, successivamente, Direttore del Dipartimento della Medicina Oncologica. Ha ricevuto varie onorificenze nazionali ed internazionali, tra le quali il premio “Richard and Hinda Rosenthal Foundation”, nel 1982; il premio “David Karnofsky” dell’American Society of Clinical Oncology  nel 1989, la “Medal of Honour” dell’American Cancer Society (1991), il “Clinical Research Award” della Federation of European Cancer Societies nel 1995 e moltissimi altri. Un riconoscimento di grande rilievo è notizia recentissima. L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ha deciso di istituire annualmente la “Gianni Bonadonna Award and Lecture” come riconoscimento dell’importante attività clinico- scientifica svolta da Gianni Bonadonna. L’annuncio ufficiale è stato fatto in questi giorni negli Stati Uniti. Un tributo di valore immenso mai riconosciuto a tali livelli, nei confronti di uno scienziato italiano.
La prima Lecture, che verrà assegnata da un apposito comitato a un ricercatore che si sia particolarmente distinto si terrà il 7 settembre 2007 a San Francisco, California, durante il 2007 Breast Cancer Symposiumche si svolge sotto il patrocinio delle più importanti società scientifiche americane (ASCO, American Society of Breast Disease, The American Society of Breast Surgeons, American Society for Therapeutic Radiology and Oncology, The Society of Surgical Oncology). Non voglio certo limitarmi a un elenco di premi. Che cosa ha fatto il dottor Bonadonna, a che cosa è dovuto tutto questo? Le sue ricerche di maggior rilievo comprendono le prime valutazioni cliniche sull’efficacia dell’adriamicina, della bleomicina e dell’epirubicina oltre ad altri studi clinici controllati di rilevanza internazionale sulla chemioterapia adiuvante e primaria nel carcinoma mammario e nel trattamento della malattia di Hodgkin. E’ stato il primo ad introdurre in Italia la metodologia degli studi clinici controllati in Oncologia Medica. Nel 1972 Gianni Bonadonna disegnò una nuova combinazione di farmaci per la malattia di Hodgkin nota come ABVD, ancora oggi, 30 anni dopo, considerata “gold standard” per il trattamento convenzionale di quel linfoma. Nel 1973 inoltre disegnò e condusse il primo studio clinico per valutare l’efficacia della combinazione CMF ( ciclofosfamide, methotrexate e fluorouracile) quale trattamento postoperatorio adiuvante nel carcinoma mammario ad altro rischio di ripresa della malattia. Il CMF si è dimostrato in grado di aumentare significativamente la percentuale di guarigione. Vorrei che vi soffermaste sulle date delle sue sperimentazioni. Perché sull’Oncologia Medica ci sono tanti preconcetti,  è legata a fosche proiezioni di vie crucis, dolori, ansie, solo il termine “oncologia”, strozza, mozza il fiato, produce la sensazione di essere in bilico, su un piano inclinato. Siamo negli anni 60-70. Io ricordo- in realtà è un ricordo ricostruito- che a mio nonno materno fu diagnosticato un tumore nel 1968. Ero molto piccola ma questo evento doloroso ricucito nella memoria non è mai sbiadito. A mia nonna che ascoltava il medico, atterrita, pallida, terrorizzata, fu detto: “Non è operabile, non c’è niente da fare, morirà fra atroci tormenti”. Ero già grande quando questa frase agghiacciante mi venne raccontata. Non riuscì, per fortuna, a soffrire perché subentrarono complicazioni cardiache e morì molto prima del previsto. Ho un ricordo denso, caldo e affettuoso di quel nonno, e la data mi è rimasta impressa, 1968. All’epoca, ( e anche dopo, in fondo anche adesso nonostante tutti i progressi) la diagnosi di cancro era una diagnosi con l’eco, il sapore e il peso enorme della morte quasi certa. Era una diagnosi sussurrata dai parenti, carbonara, segreta. “Il brutto male”. “Il male incurabile”. Una ineluttabile fatalità che si abbatteva sulle persone e le loro famiglie, senza neanche, all’epoca, il supporto adeguato, che adesso esiste, di una terapia del dolore in grado di lenire quelle famose sofferenze, quei” tormenti” che si supponevano stoicamente da sopportare, visto che per tanti anni il nostro paese è stato agli ultimi posti al mondo nella somministrazione della morfina e di altri oppiacei ai malati terminali.( ma questa è un’altra storia, anche se si interseca, si combina, lambisce il mio incontro con Gianni Bonadonna e il tema della Medicina Oncologica.) Adesso, con fatica, questo tabù è stato in gran parte superato( mi viene in mente un magnifico libro di Sergio Zavoli, “Il dolore inutile”, proprio sul tema della riluttanza colpevole e del ritardo ad applicare le terapie del dolore). Ma si fa fatica ad abbandonare il termine “brutto male” come se altri  mali fossero “belli”. Si continua a dire “male incurabile”. Invece il cancro è sempre curabile e  spesso guaribile. Si confondono superficialmente i due termini. Curabili sono anche pochi anni, o pochi mesi se grazie alle terapie, a trattamenti combinati e alla fine palliativi si riesce a trovare sollievo. Pochi anni possono essere resi vivibili e dignitosi, magari nell’attesa di qualcosa che modifichi radicalmente la situazione, è capitato. Invece nei media aleggia la parola incurabile o un silenzio omissivo. E’ a causa di questa confusione che comunemente si cade in una superficiale  comunicazione che passa dall’euforia esagerata per nuove scoperte magari ancora sperimentali,  ad una erronea insistenza sulla maggiore incidenza dei tumori( senza tener conto della maggiore guaribilità) che crea solo paura e alimenta lo sconforto. L’Oncologia è una branca della medicina, certo, ma è anche una questione che coinvolge il mondo dell’informazione, la qualità della vita, le prospettive per il futuro, l’ecologia, l’etica, in poche parole niente come l’Oncologia, si può definire anche e soprattutto una questione culturale e non solo scientifica. Che richiede l’attenzione, la precisione e il lavoro di tutti, non solo dei medici, dei ricercatori o di chi sta in prima linea nei reparti, ogni giorno. Lo evidenzia molto bene Tiziano Terzani nel suo magnifico e dolente libro” Un altro giro di giostra”.  Terzani utilizza il suo cancro per compiere un viaggio di conoscenza interiore e una esplorazione del mondo asiatico e di quello occidentale. Cure e superstizioni, i modi e i feticci, le abitudini e i riti tipici di una cultura e di un’altra nell’ affrontare i grandi problemi umani, specie quelli della malattia e del dolore. Terzani utilizza il suo cancro che impara a considerare “parte di lui” e non un nemico, per porsi certe domande sulla terminologia che circonda questo male. Troppo guerresca, secondo lui. Si “lotta”contro il cancro, si spera di “vincere la battaglia”. In qualche modo il grande giornalista esplora possibilità linguistiche diffferenti, “accettanti”, lemmi alternativi e definizioni originali ( l’acceleratore lineare per la radioterapia diventa “la ragna”) riuscendo a compiere, a mio parere, un’importante operazione culturale. Ma torniamo alle origini, al pioniere, a Gianni Bonadonna.(La frase di Shakespeare, all’inizio, frase importante per il dottore, è dedicata proprio a lui e agli altri studiosi e ricercatori come lui) Quando a mio nonno parlavano di “atroci tormenti” lui aveva già cominciato a lavorare con gli antiblastici( o antiproliferativi). E sarà la terapia medica con la sua evoluzione che un giorno –quello è lo scopo- permetterà a tanti tipi di cancro di diventare una malattia cronica e controllabile come il diabete, almeno in gran parte dei casi( In moltissimi lo permette già, anche se si tende a non soffermarsi su questo). Cito dal suo libro “Medicina Oncologica”:”L’uso iniziale dei farmaci antiproliferativi non fu il risultato di una scoperta di laboratorio o di studi su modelli animali, ma piuttosto una conseguenza dell’uso di gas durante la Seconda Guerra Mondiale. L’esplosione della nave da guerra John Harvey, colpita dall’aviazione tedesca nel porto di Bari causò la dispersione del gas iprite contenuto in cento tonnellate di bombe immagazzinate nella stiva. Fra le centinaia di marinai contaminati venne documentata un’importante aplasia midollare e linfatica. Un derivato dell’iprite, la mostarda azotata, venne successivamente somministrato da Goodman e Gilman a Yale nel 1943, in sei pazienti con linfoma maligno. La somministrazione di dosi intermittenti di mostarda azotata ottenne una riduzione considerevole delle lesioni neoplastiche, riduzione confermata da studi successivi che suscitarono grandi aspettative…ma anche grandi delusioni. La scoperta, negli anni Cinquanta, degli antifolici e successivamente dei derivati della vinca rosea diede nuovo impeto al trattamento medico delle neoplasie. Per quasi un quarto di secolo i farmaci antiproliferativi sono strati somministrati quasi sempre in forma di monochemioterapia..i mezzi e quindi le ambizioni erano limitati…”

Questo è stato l’incerto, faticoso inizio,( per approfondire quihttp://en.wikipedia.org/wiki/History_of_cancer_chemotherapy#The_first_efforts_.281940.E2.80.931950.29 , in inglese) e David Karnofsky è arrivato poco dopo a continuare il lavoro sulla mostarda azotata e i suoi derivati e, come si può leggere in questa pagina http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,901425-1,00.html ( in inglese), si ritiene che la sua morte, avvenuta nel 1969 sia stata dovuta all’esposizione agli agenti chimici con i quali lavorava. E’ stato, comunque il fondatore della moderna Medicina Oncologica, e Gianni Bonadonna ha lavorato con lui e con il suo vice, Irwing  Krakoff. Afferma:” Sono orgoglioso di essere stato un allievo del grande Karnofsky. Avendo fatto il tirocinio in Italia, dove i professori trattavano tutti, medici, studenti , infermieri, pazienti e famigliari con frettolosa arroganza, mi colpì profondamente il comportamento di David Karnofsky. Lui non era mai stato uno di quelli che recitano un ruolo. Era sempre disponibile con noi giovani medici: ci ha passato il testimone perché combattessimo nella guerra contro il cancro. Perché la combattessimo con determinazione, senza paura, senza fare né creare troppe illusioni. Anche con i pazienti e i loro famigliari era sempre disponibile e ha insegnato anche a noi giovani oncologi a trattare con quella dignità con cui vanno trattate tutte le persone, a spiegare loro con parole comprensibili diagnosi e programmi di terapia, a farne i nostri alleati nella guerra contro il cancro”. Quando ho incontrato il dottor Bonadonna pensavo di domandargli  la sua opinione sulla questione della terminologia così come la affronta Terzani, di chiedere cosa pensa del ricorrere della parola” guerra”, o “battaglia”, quando si parla di cancro, ma poi ho capito che non era il caso. Il suo ruolo di pioniere , di vero e proprio fondatore di una delle branche più moderne della medicina( fino agli anni Novanta, l’esame di Oncologia Medica era ancora un complementare, non esistevano nemmeno libri di testo, adesso è uno dei fondamentali), questo ruolo gli ha imposto di considerare il suo lavoro una sfida. Non era a lui che andavano poste domande sulla terminologia, sulla paura di dire quella parola, non è certo suo il compito ma è di altri: è un dovereinterrogarsi su come parlare di cancro di chiunque si occupi di informazion, dei media in gemerale  che spesso, purtroppo veicolano una informazione frammentaria, emotiva, non consapevole. E’ grazie a uomini come Karnofsky, Krakoff, Bonadonna, Valagussa, De Vita, Carbone, Fisher, Veronesi, Kaplan, Hortobagyi e a tanti altri che si  è potuto arrivare alle terapie geniche, agli anticorpi monoclonali, è grazie a loro che la ricerca prosegue. Anche se a volte, e da noi è storia recente, si cade nel clamoroso errore che debba esistere da qualche parte una cura magica, una pozione miracolosa capace di sbaragliare il cancro per sempre. Si insinua, come un morbo condotto dalla disperazione, dallo sconforto( e magari alimentato dall’assenza di scrupoli di chi vuole lucrare) il pensiero  che la chemioterapia sia un sadismo gratuito che alcuni medici perversi desiderano infliggere a malati inermi. Questo clamoroso equivoco nasce dal fatto che si continua ad ignorare che ogni singolo tumore è una malattia a se stante, diversa da tutti gli altri, anche quelli più simili. Scrive Bonadonna in un capitolo dal titolo eloquente, Le cure miracolose:” Ancora oggi la diagnosi più temuta da un paziente è quella di cancro. La sola parola è capace di evocare disperazione legata alla prospettiva di un cammino verso l’ignoto, una sorta di viaggio forzato, costellato di sofferenza fisica e psicologica, intercalato da complicazioni, note o presunte, legate al trattamento nella presunzione che non sia mai possibile una concreta speranza di guarigione. Paura, senso di frustrazione, disperazione a seguito della presa di coscienza dell’insuccesso dei trattamenti convenzionali, sono da sempre i cattivi consiglieri del malato di cancro e dei suoi famigliari che lo portano a ricercare e adottare trattamenti alternativi. Dal punto di vista strettamente semantico, il termine alternativo cambia significato in rapporto a chi ne fa uso. Assume così il senso di non comprovato, non ortodosso, non convenzionale, complementare ( se usato dai sostenitori), mentre suona come inefficace, fraudolento, discutibile e comunque da condannare ( in bocca a critici o detrattori). Quack( ciarlatano) e quackery( ciarlataneria) sono i termini che l’oncologia ufficiale riserva a tutti i proponenti e ai metodi terapeutici che non rispondano in modo preciso e puntuale  a criteri di validazione clinica.. La storia della comparsa e dello sviluppo delle cure non ortodosse del cancro è vecchia quanto la malattia… Così infatti, nel decennio 1940-50 contemporaneamente allo sviluppo scientifico sull’elettricità e l’elettromagnetismo la medicina non ortodossa ha assunto un orientamento tecnologico. Pazienti con tumori venivano trattati con strumenti fantasiosi come l’ “oscilloclasto “(capace di ricambiare la disarmonia degli elettroni ripristinando lo stato di salute) o l’accumulatore di energia “orgone “ ( macchina in grado di convogliare l’energia cosmica all’interno dei globuli rossi). Durante il decennio  1960-70, che vede il nascere e l’affermarsi della chemioterapia antineoplastica, l’interesse dei propugnatori di terapie non ortodosse passa dalle macchine ai farmaci….La corsa alla ricerca di risultati facili o mirabolanti della medicina  non ufficiale è sempre esistita e continua tuttora. Anzitutto la paura di una malattia che, contro ogni sforzo degli specialisti del settore…viene ancora presentata dai mezzi di comunicazione come un “male incurabile” Ciò crea panico anche in quei soggetti cui viene offerta con onestà professionale ed estrema chiarezza di toccare con mano i progressi compiuti dall’oncologia clinica in termini di vera guarigione. Quanto alla curabilità non si insisterà mai abbastanza nel dire che il cancro è la più curabile delle malattie croniche. In pratica però sembra che tale realtà oggettiva venga rimossa per dare spazio all’inquietudine derivante da notizie del fallimento delle cure ortodosse in “quel particolare paziente”. Il singolo insuccesso provoca la sfiducia generale. Nasce così il desiderio di rivolgersi a chi promette guarigioni certe… Se la malattia si presenta in fase non più guaribile, rivolgersi a chi promette guarigioni miracolose può rappresentare la comprensibile reazione di chi intende tentare “tutto il tentabile” in quanto ritiene di essere all’ultima spiaggia…Il ruolo dei parenti diventa quasi sempre determinante nella corsa alla ricerca di cure miracolose. … Complessivamente il trattamento convenzionale dei tumori viene considerato con sospetto. Della chirurgia, radioterapia e chemioterapia si tendono ad evidenziare soltanto gli effetti collaterali negativi(  mutilazioni, nausea, vomito, perdita dei capelli)…la stessa figura del medico viene vista in una luce distorta, linguaggio difficile, atteggiamento autoritario, scarsa disponibilità a creare illusioni.” A  questo punto citare la vicenda Di Bella e tutto quello che ha comportato, è persino superfluo. Quindi una mattina di maggio sono andata a incontrare questo pioniere, quest’uomo il cui nome è tanto onorato all’estero e negli ambienti scientifici, quanto sconosciuto ai più. Grazie al suo lavoro la vita e la qualità della vita di un numero incalcolabile di persone è incredibilmente migliorato. Ma questo ha richiesto una dedizione assoluta, totale e totalizzante. Riporto le sue parole, relative ai primi tempi in  cui, al ritorno da New York, aveva cominciato a lavorare a Milano( Dal libro di cui è coautore  “Dall’altra parte”):” Un po’ irruente com’era e com’è anche oggi il mio carattere, dissi a Bucalossi che  la terapia dei tumori non era solo chirurgica e radioterapica e che l’Istituto doveva qualificarsi anche per la terapia medica se voleva diventare un vero e proprio centro di riferimento. Occorreva quindi un’impostazione più sistematica e sarebbe stato opportuno creare un reparto di chemioterapia clinica. Mi guardo di sottecchi e sbottò:” Mai contento lei? Intanto cominci a dimostrarmi che in America non ha solo imparato ad iniettare farmaci.” E qualche tempo dopo, lungo per me ma breve per lui, mi affidò ufficialmente la responsabilità di un piccolo reparto, l’embrione di quella che qualche anno più tardi, nel 1968,  diverrà la divisione di Oncologia Medica, la prima creata in Italia.” Gianni Bonadanna però è anche un medico che, dal 1995, ha vissuto un’esperienza terribile passando dall’altra parte. Ha avuto un ictus. Una malattia improvvisa, capace di infrangere ogni cosa in pochi attimi. Forse rallentando gli impegni, la dedizione totalizzante alla cura e alla ricerca sarebbe cambiato qualcosa, o forse no, non si può dire. “ Dal cancro si può guarire, molti possono godere di una buona qualità della vita, anche, nonostante quello che comunemente si pensi, fra un ciclo e l’altro della chemioterapia. Invece le conseguenze di un ictus spesso non perdonano, sono presenti tutti i giorni, sono sempre dolorosamente evidenti.”Mi dice dopo che la segretaria mi ha fatto accomodare nel suo ufficio, grande, strano, colorato, etnico, accogliente, tappezzato di fotografie della sua amata India, ( ci è stato 40 volte, ha incontrato Indira Gandhi, sull’India anni fa ha scritto un libro e sta lavorando a un altro), un ufficio che è il mosaico di una vita fuori dall’ordinario,  che gli somiglia , che accoglie e abbraccia, con i muri senza neanche una fessura bianca, completamente occupati dalle immagini dei suoi maestri , dai riconoscimenti che ha ricevuto, dai frammenti di una vita che ha conosciuto gioie e dolori. La vita di un uomo che con le gioie e i dolori ha lavorato, le tracce di un curioso enciclopedico sciamano, atipico italiano che ha reso il nostro paese quello che non è più, quello che si spera che un giorno sarà ancora- all’avanguardia, imitato, considerato- un uomo che ha visto i guerriglieri afgani che preparavano le polveri da sparo, gli indiani in processione per lavarsi i piedi nel fiume Gange e la morte e la vita a giocare a rimpiattino. Una mente da Nobel. Parliamo della sua malattia:” Da quel giorno io non sono più quello di un tempo, un ictus arriva e ti segna; per come eri e come sarai. E poi tenti di risalire minuto per minuto il burrone in cui sei precipitato.”Mi fa notare una frase di Confucio, scritta su un foglio di appunti, che gli è particolarmente cara:” La nostra maggior gloria non è nel non cadere mai, ma nel risollevarsi dopo ogni caduta. Beh, io sono caduto 70 volte 7. Ma mi sono rialzato”  Lo ha fatto, si nota, si vede; recuperare il massimo, il possibile, con una volontà di ferro e una determinazione che lascia senza fiato, che ammutolisce per latenacia rara. La tenacia dei pionieri. Mi indica Karnofsky mentre procediamo con una chiacchierata che tocca diversi temi e non somiglia per niente  a un’intervista tradizionale. Ancora il passato, ancora gli inizi col suo maestro.
Lui era un uomo di una cultura straordinaria. Quando l’ho incontrato stava leggendo “Le confessioni di Sant’ Agostino”. Sapeva tutto. Era enciclopedico. Mi conosceva da una settimana, ma sapeva che un giovane a New York poteva sentirsi spaesato, così si offrì di prestarmi la sua macchina. Sono sempre stato molto curioso, con la sua macchina mi è stato possibile cominciare ad esplorare una città straordinaria, andare in giro.”Mentre mi racconta queste cose l’emozione è grande, mi attraversa la mente la data della diagnosi al nonno,  e come la sua, tante diagnosi che mozzavano la speranza, che lasciavano inermi e terrorizzati. Che schiantavano. Negli stessi anni, quest’uomo insieme ad altri coraggiosi temerari, procedevano nella ricerca, con la lentezza necessaria, con la precisione , la puntualità, l’attenzione scientifica necessaria.” E’ una storia lunga e dolorosa- mi dice- costellata di cadaveri lo sa? Eppure è una storia importante. Insieme a un gruppo di persone come me abbiamo condotto ricerche promettenti che hanno modificato l’approccio terapeutico ai pazienti oncologici , migliorandone l’attesa di vita e la qualità della vita.” Io annuisco. Lui continua:” Adesso hanno tutti fretta, troppa fretta, e i giornali sempre ad enfatizzare scoperte che definiscono come fondamentali, decisive. Invece ci vuole tempo, tanto tempo.” Sento che sto incontrando un uomo che ha siglato la storia della medicina, certo, ma anche la Storia nel senso più ampio e più alto. Sento che il suo lavoro, quello di prima e quello che sta facendo adesso, riguarda tutti, molto da vicino.

Gianni Bonadonna non si è lasciato piegare dal suo male, proprio no. Me ne rendo conto, durante il nostro incontro, a ogni istante. Si distrae un attimo e mi racconta che è un grande amante della musica classica.“Tutta, la ascolto tutta, anche la lirica. Se dovessi dire cosa preferisco, beh, per cominciare Beethoven, di sicuro, poi Bach e Mozart.. L’ictus ha intaccato alcune funzioni del mio corpo, ma non la memoria, la capacità di ascoltare e godere della buona musica.” Stando in sua compagnia, l’ictus si lascia dimenticare. Non per lui certo, ma per chi gli sta accanto.  Lo dimentico spesso. Lo ascolterei per ore, rispettando tempi e ritmi del suo discorrere. La fatica delle parole che poi arrivano, perfette. Viaggia, tiene conferenze e convegni e  scrive ancora, libri di carattere divulgativo sulle necessità di modifica e umanizzazione del sistema sanitario e della medicina  Se dovesse sintetizzare cosa ha significato, cosa significa per lei, trovarsi dalla parte del malato?
Significa che mi sono ritrovato a giocare una partita a scacchi come quella che Ingmar Bergman ha ripreso nel film “Il settimo sigillo”. Vivo costantemente sotto una spada di Damocle e devo stare all’erta. Ma  ho fatto il possibile per risollevarmi. Di certo si è risollevato ma a che prezzo? Ho vissuto un lunghissimo periodo di riabilitazione, perché, dopo il coma farmacologico seguito all’operazione ero emiparetico, afasico, mi ritrovavo un corpo privo di tono e della necessaria coordinazione. Da persona attivissima mi ero trasformato in un dis- abile. Inoltre il dolore.
Cosa può dirmi del dolore?
Il dolore è stata  una presenza costante, a volte talmente acuta che mi pareva di impazzire. Non è mai scomparso del tutto, anche adesso, anche in questo momento è presente.  Lo avvertii al risveglio, subito. Ma lo sa che le prime parole che riuscii a dire furono in inglese?
Non ne dubito. Lei ha lavorato a lungo prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Anzi, le suore del Santa Cabrini Hospital di Montreal la accolsero, la incoraggiarono e la aiutarono a migliorare il suo inglese e a renderlo corretto e fluente

E lei come lo sa?( Mi guarda stupito e divertito)
Ma dottor Bonadonna, mi sono documentata. A lungo e in modo approfondito. Ho apprezzato molto i  libri divulgativi, quelli scritti dopo la malattia,  come “Dall’altra parte” a cura di Paolo Barnard, di cui è coautore e“Coraggio, ricominciamo. Tornare alla vita dopo un ictus, un medico racconta” Penso che  lei , attraverso la sua testimonianza elabori la sua dolorosa esperienza e , comunicandola, renda un grande servizio a tanti ammalati  o a persone vicine ad ammalati. Persone che hanno bisogno di parole che incitano alla tenacia, al non lasciarsi andare. Ha scritto infatti.” Mai arrendersi e alzare bandiera bianca”. Lo ribadisco…  Poi ci sono tante cose da tenere presente. Adesso sto concentrando gran parte del mio lavoro sull’umanizzazione dell’arte medica. Vede, la medicina è un’arte: perspicacia e intuito, capacità di creare un dialogo con il paziente, tutte queste cose equilibrate e mescolate.. Sfortunatamente  è doveroso dire che di fronte alle grandi scoperte della biologia, l’arte della terapia sembra quasi passata in secondo piano.  Occorre riscoprire e rilanciare il VALORE dell’assistenza ai malati. Negli ultimi anni l’università  ha privilegiato troppo la dimensione tecnica dei futuri medici trascurando il versante umano della professione. Quindi, l’approccio al malato, a volte, somiglia a quello verso una macchina in avaria:individuato il guasto ci si limita a porvi rimedio.( Tiziano Terzani, nel suo libro, chiama, non a caso, i medici che l’hanno in cura “aggiustatori”)La cura sembra essere un adempimento tecnico. Di conseguenza il medico stenta a vedere nel paziente la persona. Se ne è reso conto durante il suo “percorso” dopo l’ictus?
-Certo. Ne  ero consapevole anche prima ma ho compreso, trovandomi dalla parte del malato che occorre ricordare SEMPRE che l’obiettivo principale della professione medica è di rendere un servizio all’umanità. La passione senza compassione è destinata a formare un medico dimezzato.  Per invertire le odierne tendenze sembra indispensabile riformare l’università riportandola al suo scopo primario: privilegiare la cultura umanistica oltre alla tecnologia. Sono d’accordo. Credo sia un’urgenza percepita dalla maggior parte della gente. Sì. Io, aiutandomi con diapositive per supplire alle difficoltà di linguaggio che a volte, purtroppo si ripresentano, sto tenendo conferenze e partecipando a convegni ovunque e lo ripeto sempre. E’ tempo, nelle università di insegnare agli studenti a entrare nel mondo delle malattie quali sono vissute dai pazienti, non a contemplarle con distacco. Serve una medicina più umana, anche perché so, sulla mia pelle, che solo con la collaborazione e la fiducia dei pazienti si possono raggiungere gli obiettivi sperati

Mi spiega che il suo scopo è l’introduzione di una vera e propria materia di studio negli atenei e anche il tentativo di riprogettare le strutture sanitarie “intorno” alla persona e ai suoi bisogni. Mi dice che ci sono stati enormi progressi nell’oncologia, una forte riduzione di mortalità per alcuni tipi di cancro ma si è registrato un peggioramento della relazione medico- paziente. E non è solo una questione che riguarda l’oncologia. L’intero sistema è costruito per essere funzionale alle esigenze organizzative del personale sanitario: per renderlo “a misura di paziente” è necessario ripensare tutti i momenti del passaggio del malato all’interno della struttura e dedicare la giusta attenzione anche agli aspetti emotivi e psicologici. Fondamentale ad esempio prevedere la possibilità di accogliere la famiglia e permetterle di vivere il difficile periodo della malattia a fianco del proprio caro. I medici si sentono onnipotenti, e questo in tutti i campi.  Ragionare, rilanciare l’assistenza, personalizzare la comunicazione, questo è fondamentale.

Naturalmente Gianni Bonadonna andrà negli Stati Uniti in occasione del  riconoscimento che gli hanno conferito. Prenderà l’aereo e interverrà. Sta già pensando al prossimo libro e alle conferenze sui temi che gli stanno a cuore e che credo, siano i temi cruciali con i quali la medicina deve confrontarsi. Con la quale l’uomo deve confrontarsi. Esco dalla sede della Fondazione con la consapevolezza di avere incontrato una persona eccezionale.

FONTI

Gianni Bonadonna

Gioacchino Robustelli della Cuna

Medicina Oncologica

Masson

Sandro Bartoccioni

Gianni Bonadonna
Francesco Sartori

Dall’altra parte. A cura di Paolo Barnard

Bur, 2006

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Gianni Bonadonna

Coraggio , ricominciamo. Tornare alla vita dopo un ictus.

Baldini Castoldi Dalai , 2005

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Tiziano Terzani

Un altro giro di giostra

Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo

Longanesi, 2004

—-

Sergio Zavoli
Il dolore inutile

Garzanti,  2005

SITI

La Fondazione Michelangelo

http://www.fondazionemichelangelo.org/

Un’ intervista del dottor Bonadonna sul cancro della mammella

http://www.senology.it/Intervista_Bonadonna.php

Una recensione di Coraggio, ricominciamo

http://www.zam.it/home_cat.php?id_autore=586&cat=me

La mia recensione di Dall’altra parte

http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2006/12/dallaltra_parte.html

Uno dei tanti premi ricevuti dal dottore. Per conoscere meglio la sua storia e il suo percorso

http://www.progettoamazzone.it/progettoamazzone/premi/amazzoneoro.aspx

Un suo libro del 2001, La cura possibile

http://www.libreriauniversitaria.it/cura-possibile-nascita-progressi-oncologia-bonadonna-gianni/libro/9788870787283

Per una medicina più umana. Un intervento

http://www.corriere.it/vivimilano/caso_del_giorno/articoli/2006/02_Febbraio/24/caso.shtml

Il premio ASCO a lui dedicato e le motivazioni( in inglese)

http://melanomaca.asco.org/portal/site/ASCO/menuitem.c543a013502b2a89de912310320041a0/?vgnextoid=881458ed87ed2110VgnVCM100000ed730ad1RCRD

Il contributo di Gianni Bonadonna alla storia della chemioterapia( in inglese)

http://www.springerlink.com/content/l3h6034w8193m433/

(un ringraziamento al dottor Gianfranco Addamo per l’approfondimento, lo stimolo costante, i chiarimenti, la condivisione , l’amore e tutto il resto. 23 giugno 2007)