sabato 22 novembre 2008

INTERVISTA A GABRIEL N. HORTOBAGYI




Ho il privilegio e l’occasione di incontrare il professor Gabriel Hortobagyi durante un importante congresso, “Meet the professor-advanced course on breast cancer” organizzato dalla Struttura Complessa di Oncologia dell’Azienda Ospedaliero- Universitaria di Modena, diretta dal professor PierFranco Conte.
Il congresso ha visto la partecipazione di alcuni dei massimi esperti sul tema , tra cui il prof. Luca Gianni dell’Istituto Tumori di Milano, il professor Dennis Slamon dell’UCLA University di Los Angeles, il professesor Ian Smith della Royal Marsden di Londra, e, appunto. Gabriel Hortobagyi dell’ MD Anderson Cancer Center di Houston.
Scopo del convegno è stato fare il punto sui risultati della prevenzione, diagnosi e trattamento del tumore al seno tramite la discussione di casi clinici rilevanti e il commento in tempo reale degli esperti. I clinici dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia sono in prima linea per quello che riguarda il tumore alla mammella e la loro attività si svolge a tutto campo, coinvolgendo eminenti studiosi e utilizzando i new media per consentire un’ informazione più allargata e capillare. Tutto il convegno è avvenuto in tempo reale su Second Life con la possibilità estesa a tutto gli studiosi del mondo di porre domande al professor Hortobayi e al professor Conte, che da tempo ha portato Modena al centro dell’eccellenza internazionale in questo settore.Ma veniamo al professor Hortobagyi.

Questo nome non dice molto al di fuori del mondo scientifico.Invece si tratta ( a lui non piacerebbe la definizione) di uno degli oncologi medici più importanti del mondo, esempio di autorevolezza scientifica, umanità e disponibilità
Il professor Hortobagyi viene spesso in Italia: è universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti nell’ uso della terapia sistemica per il trattamento della neoplasia mammaria. E’ stato un pioniere nel dimostrare l’efficacia della chemioterapia preoperatoria nel carcinoma localmente avanzato e questo ha portato a riduzione delle mastectomie e ad un rilevante aumento della sopravvivenza. Al momento i suoi studi vertono sulla terapia genica, sulla caratterizzazione molecolare del cancro della mammella, e sui meccanismi di farmacoresistenza. E’ autore o coautore di oltre 750 pubblicazioni sul tema e di 11 libri e innumerevoli capitoli sullo stesso argomento. E’ stato presidente dell’ ASCO, American Society of Clinical Oncology e collabora da tempo col professor PierFranco Conte. ( Da me intervistato qualche tempo qualche tempo fa, in esclusiva, qui http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2008/04/24/intervista-al-professor-pier-franco-conte/ )

Ritengo eccezionalmente importante questa occasione per intervistarlo, perché conoscere il lavoro dei più importanti ricercatori di oncologia medica, capire i debiti verso i maestri, conoscere lo stato dell’arte, confrontarsi sulla divulgazione può servire a limare i foschi pregiudizi che ancora, in Italia, circondano il tema cancro. Il male incurabile e innominabile, che provoca vergogna, che si nasconde, che si fatica a nominare e fa sentire in colpa. Il male che non esiste, il “brutto male”. L’unica malattia che provoca reazioni schizofreniche da parte di tutti, persone, opinione pubblica, giornali. Si evita, o si applaude a qualche nuova scoperta senza curarsi dei tempi, delle applicazioni reali, di come inciderà ( e quando) sulla vita dei pazienti. Il risultato è spesso una non- conoscenza , una mancanza di attenzione ai segnali del corpo che può risultare profondamente nociva e fuorviante.
In questo tempo in cui le informazioni sono tante, debordanti, quasi troppe, sul cancro ci sono soprattutto silenzi.
E” da questo che comincio con il professor Hortobagyi.
Sul tema cruciale della divulgazione. Visto l’aumento dell’incidenza delle malattie neoplastiche, rendere meno silenziosa e sola la vita degli ammalati, far conoscere i grandi progressi dell’oncologia medica ( stando attenti ai facili sensazionalismi spesso sbandierati dai giornali, come dicevo) mi pare una cruciale questione non solo medica, ma sociale e culturale. Che ci riguarda tutti. Ed è quello che mi spinge a lavorare a queste interviste mantenendomi costantemente aggiornata. Penso si debba far sapere cosa vuol dire essere oncologi medici, oggi, e come esserlo, nel contemporaneo.Gli chiedo cosa ne pensa.

Sono d’accordo con lei. Vede, la situazione negli Stati Uniti è molto diversa ma conosco quella italiana. Da noi c”è stato un preciso lavoro “educazionale” portato avanti dai media negli ultimi 30 anni che ha davvero inciso nella percezione della malattia e di quello che alla malattia è correlato. E’ più difficile provare vergogna, ci si sente capiti. Si sa di condividere una situazione molto diffusa. Non è facile arrivarci. Occorre un lavoro paziente, ripetuto, incisivo fatto dai mezzi di informazione, si tratta di superare le resistenze e, all’inizio, le resistenze sono molte. Ad esempio, sarebbe di grande aiuto che qualche persona nota, uno sportivo, un attore ( in America l’hanno fatto anche le mogli di due Presidenti, quella di Ford e di Reagan,) rivelasse di avere il cancro e si lasciasse intervistare. Questo avvicina, rende più “normale” il fatto che accada, rassicura e rinforza. Altro elemento rilevantissimo, è che gli ammalati si organizzino in associazioni.

Com’è successo nel caso dell’AIDS.

Esattamente. Esempio importante, in America, è quello dell’Associazione Susan Komen
( http://ww5.komen.org/ ).
Susan era una mia paziente, si ammalò di cancro nel 1982 e poi purtroppo morì. Anni dopo anche a sua sorella capitò la stessa cosa, guarì e decise di organizzare questa associazione intitolata a Susan che ha avuto una grandissima diffusione, i membri sono diventati 15.000, raccolgono fondi, forniscono consigli, indirizzano, si fanno sentire coi candidati alle elezioni, esercitano grande influenza senza vergogna, senza omissioni di alcun tipo. C’è, in questo modo, nello stesso tempo uno stimolo alla ricerca e un impatto forte su televisioni, giornali, internet, e sulle persone, perché fra le varie attività di cui si occupano ce n’e una dedicata all’informazione che è diffusa e capillare.
Quello che i giornalisti, i divulgatori e gli analisti debbono tener sempre presente è che occorre una conoscenza precisa. Una conoscenza seria che parta da fonti validate. Restando sul tema del cancro della mammella, che è quello di cui mi occupo, si deve chiudere la porta ad una informazione fuorviante, che può seriamente danneggiare le persone e soprattutto le donne quando si trovano di fronte alle prime avvisaglie di qualcosa che potrebbe essere preso in tempo.
Si devono segnalare i centri migliori, fornire link a siti internet numeri di telefono, indirizzi e-mail. Una donna che pensa di avere un problema non deve mai sentirsi perduta, sola, ma avere i mezzi e agire presto, sapendo di farlo nel modo migliore. Io credo che fra cinque, dieci anni al massimo, queste paure che diventano silenzi attorno al tema cancro diminuiranno e la cosa inciderà molto sul tessuto culturale.

Per aiutare chi legge a capire meglio, come si può definire il ruolo di un oncologo medico?

L’oncologo medico lavora in team, in un team dove tutti hanno un ruolo importante. La parola chiave per definire il lavoro che facciamo è “multidisciplinarietà”. Non c’è spazio per gelosie, o lavori che prescindono dal confronto, anche dialettico. Di solito, l’oncologo medico è il coordinatore dell’equipe medica che si occupa del paziente ma non è sempre detto, dipende dalle strutture e dall’organizzazione interna. Il coordinatore può essere anche qualcun’altro. L’importante è che l’organizzazione del lavoro sia efficace e funzionale. Questo per quello che riguarda i medici. Naturalmente ogni equipe deve avere sempre presente la cosa fondamentale in assoluto, LA CENTRALITA’ DEL PAZIENTE. Attorno al paziente tutti i membri del team specialistico e multidisciplinare devono collaborare ed essere coinvolti in egual maniera.

Che cosa l’ha portata a scegliere l’oncologia quando ha cominciato, e quando l’oncologia..

Non esisteva, certo. Beh, una motivazione strettamente scientifica, comprendevo le possibilità di sviluppo che avrebbero coinvolto diverse branche mediche. Quando ho cominciato non esisteva nulla di tutto questo, c’erano ematologi, endocrinologi, internisti che avevano una passione unificante, studiare, analizzare e procedere con la ricerca attorno al “tema cancro” per incidere sulla vita delle persone. Agli albori era una questione solo chirurgica. Piano piano le cose sono cambiate. Nei casi più guaribili la chirurgia ha cominciato ad essere meno invasiva e sempre più focalizzata, diretta ( penso al sarcoma, al cancro della mammella) Certo, la terapia medica ha acquisito maggior rilievo, ci sono già tumori come il linfoma dove non è più necessario intervenire chirurgicamente, ma nulla può essere escluso, come le dicevo si tratta, e lo ribadisco, di un lavoro di equipe. Unica vera garanzia per il paziente. Tutti i saperi sono in gioco.

Lei è il massimo esperto di cancro della mammella. Durante il congresso si è enfatizzata l’importanza dello screening. Ho letto, tempo fa, uno studio trovato in internet, che in alcuni casi si è proposto l’utilizzo della Risonanza Magnetica al posto della Mammografia per arrivare a una diagnosi precoce. E’ ipotizzabile, secondo lei, dal punto di vista dei costi-benefici una diffusione su vasta scala di questo tipo di screening?

Direi di no. Lo screening per il cancro della mammella si fa con la Mammografia dagli anni sessanta ed esistono le dimostrazioni scientifiche validate dell’efficacia e dei risultati che si ottengono procedendo così. La Risonanza Magnetica certo può identificare più cancri della mammella che la Mammografia, ma attraverso una Risonanza si trovano anche tante altre cose, masse o formazioni che possono spaventare inutilmente la paziente o spingere a fare biopsie, magari inutili. E’ alto anche il numero di falsi positivi. A causa di questo la Risonanza può essere un utile strumento per affiancare, in alcuni casi, ma non lo strumento base per lo screening, assolutamente no.
Il discorso si modifica leggermente in caso di pazienti con una grande storia di famigliarità ma anche in quei casi l’indicazione è quella di procedere SIA con la Mammografia CHE con la Risonanza.

Riesce ancora a fare della clinica?

Certo, è fondamentale. Mantiene radicati nella realtà, si fa questo lavoro per stare a contatto con il paziente. Purtroppo, riesco a farne meno di quella che vorrei ma la faccio.

Chi sono stati i suoi maestri?
Sicuramente Freireich, un ematologo americano, uomo di grande intelletto e di incredibile ottimismo.
E ancora Fletcher, un radioterapista, con solidissima formazione scientifica, mi ha insegnato tanto. Sopratutto perché era critico nei confronti del ruolo dell’oncologo medico, quindi il nostro rapporto è stato vivace, dialettico. Fonte di grande stimolo.
Altra persona che mi sento di citare è senza dubbio Gianni Bonadonna, un vero pioniere, grande amico ed esempio.( http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/06/23/il-%E2%80%9Cpadre-%E2%80%9C-dell%E2%80%99oncologia-medica-italiana-in-esclusiva/ )
E poi Fischer, Umberto Veronesi e altri.

Cosa serve per essere un buon oncologo medico?

Ci vuole empatia: occorre avere la capacità di identificarsi con la persona che abbiamo davanti. Sintonizzarsi, avvicinarsi. Si deve dare grande spazio a tutte le qualità umane, la comprensione VERA, la capacità di ascolto. Si ha davanti una persona, non la malattia. Non subito. Sa? E’ difficile trovare qualcuno che sia un buon oncologo e anche un buono scienziato. Ci sono ottimi scienziati che sono cattivi oncologi.
Non puoi essere un buon oncologo se non sei un inguaribile ottimista. Ci vuole fiducia nella scienza, nelle capacità della medicina di evolversi e avanzare, nei colleghi, nella ricettività e cooperazione dei pazienti. A tratti, occorre sapersi frenare, accontentare. Non possiamo curare tutti e subito. Non siamo onnipotenti. E’ un rischio, quello dell’onnipotenza. Vorremmo risolvere ogni cosa, e spesso le cose vanno diversamente. Questo non si accetta con facilità ma è necessario. Se solo penso ai progressi che sono stati fatti negli ultimi 15 anni… Nei prossimi 25 chissà. Io ho questo stimolo, aspetto di vedere quello che potrò vedere e questo mi fa andare avanti sereno. Ogni giorno, come medico e come oncologo per tutti i miei pazienti do il massimo. Faccio tutto quello che è nelle mie possibilità mantenendo un forte contatto empatico ed emotivo con le persone che non sono numeri, che non sono “malattie”, ma che hanno ansie, paure, bisogni. Quando ho fatto quello che devo va bene. Anche se, lo status quo non può appagare alla lunga. Deve scattare quel meccanismo. Quella adrenalina che porta a procedere oltre. Non credo di soffrire di un vero burn-out ma vivo uno stress che diventa il motore per la ricerca, per andare avanti.
Che cosa si aspetta per il futuro, cosa pensa che accadrà?

Per il futuro vedo la comprensione della biologia del cancro. Diverse centinaia di tipi di cancro da comprendere, ognuno va analizzato e studiato nella sua specificità. Non ci si deve stancare di ripetere che i cancri sono TUTTI diversi, non si tratta di una sola malattia( questo è un pregiudizio molto diffuso) E si tratta di trovare tutte queste cure, cure per moltissime malattie, non per una sola anche se hanno lo stesso nome. Malattie che in alcuni casi stanno già, e sempre più diventeranno croniche, quando non subito guaribili.
APPROFONDIMENTI
http://typo.esmo.org/?id=738 ( la biografia completa del professore)

http://www.aiom.it/ ( il sito dell’Associazione Italiana di Oncologia medica)Tags: ,